giovedì 8 luglio 2010

Fini vs Berlusconi

Berlusconi-Fini, lo scontro.
PdL, «cavallo scosso»?

Così ho titolato titolo uno dei capitoli del mio ultimo libro sul «Cavaliere Azzurro» (in uscita in questi giorni).

Ho letto con molto interesse (come sempre del resto) la opinione di Benedetto Ippolito «Fini, Berlusconi e la crisi oramai imminente». Questa volta, però, non la condivido in toto, come più e più volte mi è capitato. E appunto per questo intendo qui aggiungere (non «controbattere») altre riflessioni personali.
Spesso si è parlato della contrapposizione tra un «partito del Parlamento» rappresentato dal presidente della Camera dei deputati e un partito del governo, guidato dal presidente Berlusconi. A Gianfranco Fini meglio riesce il ruolo di capo del partito e al Cav. quello di capo del Governo. Secondo Giancarlo Loquenzi «Fini ha riempito il campo della politica che si è aperto con la nascita del nuovo partito. Berlusconi ha lasciato quel campo libero, preferendo da un lato fissare il suo lascito nella storia italiana degli ultimi 15 anni, la sua legacy, dall’altro dare voce ai fatti, ai numeri, alle evidenze e agli impegni del governare. Si tratta di una contrapposizione diversa da quella prevista, se volete più profonda e più vera, ma interna alla stessa dinamica e perciò meno lacerante».
O almeno, appariva meno lacerante, allora, durante il primo (e finora unico) congresso del PdL.

Da allora, però, gli eventi si sono complicati e alcune situazioni sono precipitate. Quando un filo rimane per troppo tempo teso e i rappporti sono pieni di reciproche diffidenze, allora non c’è più scampo. Si può tifare per Fini o per Berlusconi. Liberamente. La situazione però si è messa male per il presidente della Camera: i suoi uomini gli sono stati quasi totalmente «sfilati» uno ad uno. Questa è un’arte in cui il Cav. è veramente maestro: sa «blandire» in «ogni» modo (con «ogni» mezzo) le persone che gli servono.
In politica, poi, e con la attuale legge elettorale (quel famoso porcellum, che soprattutto ora Umberto Bossi ribadisce come intoccabile e non riformabile), chi si allontana dal capo, non ha prospettive per la riconferma negli organi elettivi della Repubblica.
Pertanto Fini – che questi poteri di cooptazione ha sì, ma ridotti al lumicino – deve di nuovo cercare il consenso tra gli elettori, deve ottenerne i voti, e deve ricominciare a tessere la tela perché il suo precedente soggetto politico, Alleanza Nazionale, non esiste più. Fini dovrà creare un nuovo partito? Chi starà con lui? E poi e soprattutto: chi si schiererà con lui? Vedremo.

«In realtà Fini è sempre stato solo, anche quando An era solo An, perché ha sempre mantenuto una posizione più moderna rispetto allo zoccolo duro del suo partito», è la visione di Fabio Torriero direttore del mensile La Destra! «In questo momento l’interesse di Fini è portare la destra all’interno delle istituzioni, e si spiega in questa direzione l’asse con Napolitano. Diversa la strategia dei suoi colonnelli il cui compito è di portare An dentro il PdL».

Tot capita, tot sententiae. Infatti.

Un conto però sono le dichiarazioni e i «distinguo»; altra cosa è la lite, il duello. Chi avrebbe mai pensato allo showdown dello scorso 22 aprile?
Non è che il nostro «Cavaliere azzurro» sia stato definitivamente disarcionato? O almeno il suo cavallo «scosso» (il PdL) continuerà la corsa per lui?
In rapidissima successione si è giunti alla conta finale, allo scontro per il chiarimento. Animalescamente la politica ha tirato fuori le proprie caratteristiche: vince chi «marca meglio» il proprio territorio e chi «lo sa difendere».
È stato un duello all’arma bianca, con una platea quasi unanime dalla parte di Berlusconi e una parte minoritaria, invece, dalla parte di Fini.
Gli applausi erano solo partigiani e da tifoseria. Chi era con il Cav. applaudiva lui e solo lui, qualunque cosa argomentasse. Chi era con Fini, applaudiva solo Fini, qualunque cosa argomentasse. Al di là dei contenuti.

Un vero «derby». Si è assistito a un dibattito con esito scontato, senza il confronto aperto ad altri contributi o ad altre idee. O sei di qua, o sei di là.

Si doveva arrivare allo scontro tra due modi di intendere e di vivere la vita politica in un partito: tra chi ritiene di esserne il dominus, il «padre padrone», e chi ci è stato «tirato dentro per i capelli» (mal consigliato dalla propria corte dei miracoli) e che ora vuole (tardivamente?) reagire a una situazione insostenibile e imbarazzante. Oramai gli attacchi concentrici su Fini da parte delle corazzate mediatiche in qualche modo collegate al premier, non erano più tollerabili. E Fini è andato diretto allo scontro. Lo hanno cercato tutte e due i contendenti. Chi ha vinto?
Anche qui dipende da che parte ti poni: i «berluscones» sono convinti che l’enfant prodige del Movimento Sociale Italiano, poi AN, sia arrivato al capolinea. Ma la politica è ben più sottile e difficile: la crepa all’interno del PdL c’è, si è aperta. Non potrà assolutamente richiudersi; caso mai potrà solo ampliarsi.
«Il dado è tratto». Fini deve convincersi i suoi comportamenti sono pericolosissimi, quasi temerari per chi li attiva e pertanto deve essere pronto a pagarne il conto. Qualunque esso sia! Neppure il prestigio della sua carica istituzionale può assicurargli un trattamento politico «blindato» o di «riguardo». Non può – sotto il profilo politico – ottenere un salvacondotto in quanto presidente della Camera.

«Chi rompe paga e i cocci sono suoi». È fondamentale questo concetto, sempre e ovunque. Non è un proverbio, ma una legge dei rapporti tra le persone e i gruppi.
Fini può dissentire. Anzi, fa bene a dissentire. Fa bene a porre la questione della democrazia reale nel partito di cui è co-fondatore (un errore esserlo stato in quel modo «predellinesco»); fa bene ad evidenziare che lui non tollera la subalternità del PdL alla Lega di Bossi; fa bene a rinfacciare a Berlusconi che la Lega – partito alleato – ti scava la fossa per prenderti il consenso e i voti; fa bene a ricordare le questioni della cittadinanza, le questioni razziali, le questioni morali, le questioni sulla giustizia, le questioni di un governo che governi e sappia chiedere il consenso anche ai parlamentari e ai partiti che lo sostengono. Che è ora di iniziare la strada delle riforme «con larga partecipazione, larghe intese».
Fini fa bene. Ma non potrà chiedere per se stesso un trattamento speciale: esiste la «legge del branco» che ora non ti accetta più, che ora ti mette fuori. Se vorrai mantenere la carica che ricopri, dovrai «ri-contrattarla» di nuovo in condizioni totalmente diverse.
Insomma Fini ha sdoganato se stesso, questa volta da solo, e nessuno potrà in futuro gridargli ancora «fascista».
Difficile concludere la querelle.

Appare sempre più probabile che la Lega potrebbe anche sopravvivere a Bossi per il suo radicamento e il suo controllo del territorio «manu militari», mentre il PdL senza Berlusconi si rimescolerà, si rigirerà, si scompatterà, imploderà. Chiuderà i battenti. Troppe le persone cooptate, nominate; pochi invece gli eletti per meriti precedentemente acquisiti sul campo. Ha ragione Berlusconi quando ha invitato i propri parlamentari a lavorare di più e a «girare di più tra la gente, anche durante il weekend, come egregiamente fanno i deputati della Lega».
Il fatto che nel centrodestra abbia vinto la Lega è stata la scintilla che ha acceso la benzina nel PdL.
Il nostro Paese ha sofferto nella Prima Repubblica perché c’era troppa «politica politicante»; ora si è trovato a non averne più.
Mentre ce n’è bisogno ancora, per uscire dal qualunquismo che genera il gossip, la disinformazione e l’ignavia. Il Paese deve crescere «ragionando» perché sa guardare in faccia alle sfide del futuro. Il Paese ha bisogno di aiuti strutturali, non di proclami per ottenere consenso.

E Berlusconi se vuole, lo sa fare. Esca dalla prospettiva per cui lui deve pensare a tutto. Può anche farsi da parte, per un disegno superiore. No?

Gianluigi Margutti

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