domenica 20 dicembre 2009

“Nell’anno di Darwin e Galileo, sulla frontiera tra Scienza e Teologia”

La 'Lectio Magistralis'
di S. E. Mons. Gianfranco Ravasi,
Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, all’Università di Parma (12/11/2009)

Altra Tradate vi propone questa lettura, scelta per la qualità e l'intuito che l'autore sa inserire nei propri scritti. Il periodo natalizio - particolarmente indicato ai problemi della fede, della religione e della ragione: "Dio che si fa uomo"! - può essere il contesto più agevole capace di 'giustificare' questo intervento in un blog.


Prima di iniziare questa riflessione comune devo confessare l’emozione profonda che provo nell’essere qui accolto anche oggi al di là del valore reale della mia presenza all’interno della cultura italiana. Con un’accoglienza così intensa da donarmi un’emozione che si tempera con un sentimento antitetico, che è quello della confidenza, della familiarità, perché in questa Università io sono stato tante altre volte, e quindi ritrovo un’atmosfera di amicizia si ricrea in questa giornata.
Proprio con questo clima vorrei proporre ora una riflessione di metodo: non entrerò cioè nel merito specifico del rapporto, per esempio, tra teoria dell’evoluzione e dottrina teologica sull’antropologia, né voglio entrare nel merito di una vicenda che a più riprese io ho invitato a concludere ormai in maniera rigorosa, storiograficamente ineccepibile, cioè il famoso caso Galileo. Sono infatti convinto che l’elemento fondamentale sia quello di superare il passato e di affacciarci sul futuro, sull’orizzonte che ci sta di fronte appunto, e questo è il tema dominante della mia lectio,
tentando di vedere quale sia il possibile dialogo tra scienza e teologia. In questa luce io vorrei partire facendo una premessa. Proporrò poi soltanto due considerazioni. La prima più breve, la seconda invece più articolata.


La premessa. Vorrei fare riferimento a una componente radicale, anche se tante volte disattesa, della teologia, della stessa esperienza di fede: ed è quella che è stata espressa in maniera simbolica già nel titolo di un’Enciclica del 1998, di Giovanni Paolo II. Come è noto, essa è titolata sulla base delle prime due parole latine, Fides et ratio. Il testo poi continua in latino in maniera suggestiva: Fides et ratio binae quasi pennae, che tradotto significa “sono quasi come due ali”, e prosegue “con le quali lo spirito umano s’innalza a contemplare la verità”.

Ecco, l’elemento capitale è proprio il binomio inscindibile (un binomio che non deve mai essere spezzato, anche se le tentazioni ci sono): fides et ratio, fede e ragione. E a questo proposito abbiamo alle spalle una tradizione gloriosa che non possiamo dimenticare; in questa tradizione gloriosa io vorrei far emergere un volto soltanto, assolutamente indiscutibile sia per la cultura religiosa teologica sia per la cultura laica: la figura di S. Agostino, questo genio assoluto dell’umanità. Di lui vorrei ora offrire due testimonianze. La prima è una frase brevissima che quasi potrebbe essere un motto: è nell’interno di una sua epistola. E’ un imperativo che egli rivolge al suo interlocutore: ecco, io mi sentirei di rivolgerlo costantemente in particolare a quei credenti, o a quei teologi, che sono convinti che l’orizzonte della fede sia assolutamente unico e irriducibile ad altri orizzonti, ad altri approdi. Agostino scriveva: intellectum valde ama, cioè “ama intensamente l’intelletto, l’intelligenza”. E in un’altra sua opera minore, il De praedestinatione sanctorum, scriveva queste parole che vi traduco (si senta la forza, persino il paradosso, e anche lo stile agostiniano): “Chiunque crede, pensa, e credendo pensa, e pensando crede; la fede se non è pensata è nulla”. Siamo di fronte a una dichiarazione di grande forza, che in un certo senso fa comprendere perché la cristianità, soprattutto di quei secoli, non abbia avuto nessuna esitazione ad adottare il sistema di pensiero profondamente laico, anzi pagano, della cultura greca; Agostino, per esempio, adotta la struttura plotiniana, anche il metodo plotiniano (e naturalmente le ascendenze platoniche) con una passione e con una capacità di trasformazione straordinaria, invitando perciò a un dialogo assolutamente necessario con la cultura laica, diremmo noi oggi. Il cristianesimo, per molti versi come teologia, come religione, come fede, si distacca però dalla fede greca: essa nel suo cuore ultimo (non dico la teologia alta di Platone, per esempio, ma la teologia greca a livello soprattutto popolare) era annodata attorno al concetto di anánke, eimarméne, cioè di fato, al quale doveva sottostare persino lo stesso Zeus, così da creare alla fine una sorta di inconciliabilità da una parte tra la razionalità, che veniva invece celebrata nell’orizzonte del pensiero filosofico, e dall’altra il mondo della fede sul quale incombeva la presenza indecifrabile, ineffabile, del fato.

In questo senso esiste anche una possibile dissonanza con una certa visione (non esclusiva, devo dire) della teologia islamica, che in quel maktûb/“sta scritto” - nella celebrazione totale e assoluta della trascendenza divina - presenta alla fine l’incompatibilità tra l’infinito e l’eterno del divino e il contingente, lo storico, il tempo propri della realtà umana. Ricordiamo quella celebre battuta della tradizione musulmana che dice: “Ricordati, Dio è il sole, e tu sei una pozzanghera d’acqua: qualche volta la pozzanghera d’acqua può riflettere il sole, ma non cessa di essere pozzanghera”. La distanza è assolutamente invalicabile, e quindi la ragione, che è strutturale alla conoscenza umana, non può essere comparabile all’infinito pensiero di Dio. Concludo questa lunga premessa dicendo che la tradizione ebraico-cristiana (mi piacerebbe dimostrarlo anche, per esempio, nel libro di Giobbe, un libro che non è tanto una riflessione, come ancora molti credono ancora oggi, sul problema del male o del dolore; quella è solo l’occasione) tende piuttosto a portare l’uomo a una riflessione sul mistero di Dio, sulla ‘etsah di Dio, cioè sul suo “progetto” che è meta-razionale ma non irrazionale. In questo senso l’ebraismo si distacca anche dalle culture della Mezzaluna fertile. In uno dei primi testi dell’umanità, offerti dalla cultura sumerica, c’è una tavoletta dedicata al dio principe del Pantheon sumerico, il dio Enlil. In essa si afferma: “Tu, o dio, sei come un arruffìo di fili di cui non si trova il bandolo”. Dio è una confusione; prendo il bandolo, se lo trovo, e si arruffa di più. E’ un orizzonte misterioso... La tradizione ebraico-cristiana, invece, si muove, e la metafisica classica lo attesta, con queste binae quasi pennae, con queste due ali che sono entrambe necessarie e perlustra l’orizzonte divino.


Esaurita questa premessa, vorrei fare allora la prima riflessione, che è solo un abbozzo, una semplificazione. Questa prima considerazione è in riferimento a una parola che, quando la si pronuncia oggi, o la si circonda di tante precisazioni, oppure si evita di dirla: la “verità”, il concetto di verità, e la conoscenza della verità. Attualmente si confrontano due concezioni della verità: le descrivo in maniera forse banale. C’è un primo concetto di verità che, se vogliamo usare un termine caro a Benedetto XVI è un concetto relativistico della verità, io direi un concetto soggettivistico della verità. Il punto di partenza è molteplice: lo trovo in un testo che mi ha sempre catturato non foss’altro che per il titolo biblico, Leviathan. In quell’opera Thomas Hobbes formula quel famoso detto: Auctoritas, non veritas facit legem. Cioè che la norma di vita, la legge, non è fatta dalla verità ma dall’autorità. Per cui l’autorità può mutare la verità secondo le circostanze, secondo i contesti. E questa affermazione diverrà la base della teoria del contrattualismo. Ebbene, questa intuizione è diventata sempre più dominante, per cui il “vero” è una realtà che viene elaborata dal soggetto e dalla società, secondo contesti, coordinate storico-culturali differenti.

E’ curioso notare che una studiosa americana, Sandra Harding, ha scritto un saggio intitolandolo così (si noti l’ammiccamento ironico a un testo che tutti hanno in mente): La verità non vi farà liberi. Il rimando è a un testo giovanneo (Giovanni 8, 32), con il pronunciamento di Cristo: “La verità vi farà liberi”. Essa considera la verità come se fosse una sorta di gelo dell’intelletto, che viene bloccato da una verità precostituita, mentre noi dovremmo ininterrottamente elaborare una verità che muta, che ha i suoi condizionamenti sulla base di una evoluzione o comunque di situazioni che sono continuamente mutevoli. E’ facile intuire anche le conseguenze di tipo etico (l’etica situazionista) di tale concezione.

Dobbiamo dire che in questa linea si muovono pure alcuni grandi rappresentanti dell’antropologia culturale: pensiamo a Michel Foucault, il quale ricordava che la verità è come una cappa di piombo che ti sta sopra, come una lebbra del pensiero: dobbiamo lasciar libero il pensiero, come è accaduto nelle varie culture differenti che hanno verità ininterrottamente mutevoli; la verità è come una Medusa, dai volti che ininterrottamente cambiano.

C’è però anche un’altra concezione che si contrappone a questa: ed è la prospettiva di tipo classico, tradizionale, secondo la quale la verità è trascendente, cioè non è elaborata come un filo dall’interno di noi, ma noi entriamo in essa, perché noi la ricerchiamo. E’ un pellegrinaggio, un itinerario, e la verità è una realtà epifanica (per il credente, teofanica). Questa concezione evidentemente parte già dalla filosofia classica; pensiamo, non so, all’idea della pianura della verità del Fedro di Platone. Il cocchio dell’anima corre in questa pianura che la precede, che la eccede; c’è una frase veramente suggestiva, a mio avviso, nei Minima moralia di Adorno, che è in questo senso folgorante. Dice: La verità non la si ha, ma vi si è. La verità non è come un oggetto da mettere in tasca. Robert Musil, nell’Uomo senza qualità, diceva appunto che la verità non è una pietra preziosa da custodire in uno scrigno, ma è come un mare, nel quale gettarsi, immergersi per navigare. E’ questa la tradizionale concezione della verità: quella del primato della verità, della sua trascendenza, della sua illuminazione. Una concezione tipica della teologia, ma anche tipica della concezione classica della stessa filosofia. Di fronte a queste due concezioni differenti evidentemente si pone anche il problema del rapporto tra scienza e fede, tra scienza e teologia, o fede e ragione.

Ma vorrei anche aggiungere un’ultima parola per questo primo capitolo sul tema della verità: essa riguarda il tema della conoscenza della verità stessa. Come si conosce la verità? Naturalmente la via razionale, la via intellettiva, è in un certo senso come il viale principale secondo tutta la tradizione, anche nelle due concezioni che ho descritto prima. Tuttavia già il mondo greco (ancor più il mondo ebraico-cristiano) si è accorto che non bastava questa strada, la strada della razionalità, ma era necessario un altro percorso. Vorrei evocare un testo di Bacchilide, un poeta greco del V secolo a.C., il quale dice che alétheia , la “verità” greca, è il contrario (lo dice un po’ liberamente dal punto di vista filologico) di léthe, che è la dimenticanza, l’ignoranza. Ebbene, che cosa sana la léthe e la fa diventare alétheia? E’ la mnéme, la memoria, il ricordo (e questa sarà la linea che dominerà con Platone). Ricordiamo la teoria della reminiscenzadi Platone. Ma Bacchilide aggiunge un nuovo elemento: dov’è la mnéme, quel ricordo che ci consente di cancellare la léthe, la dimenticanza, l’ignoranza, e avere l’alétheia, la verità? E’ in mnemosne, che è la Musa delle arti: è l’arte. Abbiamo così un’altra via di conoscenza che la cultura greca ci presenta: la via della bellezza, la via dell’estetica, la via della poesia.


Il cristianesimo andrà oltre e introdurrà la via dell’amore: tant’è vero che abbiamo curiosamente, nella Prima Lettera di san Giovanni frasi di questo genere: “Amiamo essere nella nella verità... Chi odia il fratello è un mentitore, un negatore della verità”. Ecco allora una via ulteriore di cui noi siamo consapevoli, attraverso l’esperienza dell’innamoramento, con quella conoscenza fondamentale che l’uomo adotta quando ama l’altra persona. E’ la via della pura razionalità? Certo, anch’essa viene usata; ma l’elemento fondamentale è di altro genere, è parallelo a quello dell’estetica, dell’intuizione poetica, è un qualcosa che appartiene a un’altra grammatica, la grammatica dell’amore. Tant’è vero che il volto della persona amata - quel volto che di per sé può avere della caratteristiche razionalmente fissate, codificate e marginali, secondarie - diventa carico di significati ulteriori, più profondi e altrettanto veri, perché, come diceva Joan Miró, il grande pittore catalano, compito dell’arte non è mostrare il visibile (questo lo fa la ragione), compito dell’arte è mostrare l’invisibile nel visibile, cioè il segreto ultimo, il nodo d’oro che spiega la realtà; e questo avviene con un percorso di conoscenza che è non dico alternativo alla ragione, ma si muove su un altro itinerario.


Questo è importante per poter passare alla seconda considerazione, quella sul tema che è alla base del nostro incontro: cioè scienza e teologia. Come ci si è comportati, come si è vissuta questa esperienza? Vedere il passato ci può permettere anche di intuire come si possa poi in futuro camminare, procedere, lavorare scienziati e teologi insieme. Abbiamo organizzato a Roma nell’anno darwiniano un convegno sul problema dell’evoluzione biologica. Sono stati chiamati in una settimana, facendoli presenziare e interloquire contemporaneamente, scienziati di qualsiasi estrazione, atei, cristiani, cattolici, diversamente credenti, poi i filosofi e, infine, i teologi. Lo si è fatto proprio per cercare in qualche modo di vedere quali siano le possibilità di un incontro e di un ascolto.

Se guardiamo al processo del rapporto tra teologia e scienza, possiamo distinguere tre tappe fondamentali. La prima tappa è quella che chiamerei la teoria “del rigetto”: quando da un lato lo scienziato considerava la filosofia, e soprattutto la teologia, come un elemento da mettere nel deposito dei relitti del paleolitico intellettuale, qualcosa di assolutamente superato. Questa concezione ha avuto forse il momento più esplicito per esempio col positivismo di Comte, quando egli negava la legittimità, sono sue parole, di ogni interrogazione al di là della fisica. La fisica è il mondo in cui l’uomo moderno si deve interrogare: tutto ciò che si domanda fuori appartiene alla mitologia. C’è stata poi un’evoluzione più sofisticata col neopositivismo, col Trattato logico-filosofico di Wittgenstein, quando appunto si è introdotto quel famoso principio secondo il quale su ciò di cui non si può parlare si deve tacere: l’ineffabilità del trascendente, di ciò che sta oltre.

Devo tuttavia dire che questa concezione (anche perché Wittgenstein dal punto di vista religioso non era un agnostico radicale, anzi), voleva perlomeno riconoscere un’altra dimensione, l’ineffabilità propria dell’orizzonte mistico. Ma per molti, anche ai nostri giorni, questa è diventata ancora una volta la convinzione che il mondo della teologia sia un mondo vago, incerto, confuso; il vento cristallino della ragione ha spazzato via tutte queste nebbie, le nebbie dei simboli, le nebbie dei miti.

Questo è stato uno dei periodi nei quali anche la teologia, d’altra parte, si disinteressava della scienza: tentava, caso mai, di perimetrarne i confini di ricerca, cercava di usarla, quando serviva, a livello apologetico. Ci sono stati alcuni scienziati cattolici che, a mio avviso, hanno varcato i confini del loro ambito e sono diventati più apologeti, usando la scienza per finalità teologiche. Questo non era un buon servizio, per certi versi era ancora un continuare un rigetto, una tensione.

C’è stato poi un secondo momento, presente ai nostri giorni, ed è la cosiddetta teoria “dei due livelli”, alla quale dobbiamo riconoscere una profonda validità. Essa è stata formalizzata in una maniera direi incisiva da uno scienziato americano morto nel 2002, Stephen Jay Gould, il quale aveva coniato quell’acronimo inglese NOMA, che vuol dire “Non Overlapping MAgisteria”: i magisteri non sovrapponibili. Il magistero della scienza e il magistero della teologia, l’insegnamento della scienza e l’insegnamento della teologia. In pratica, noi siamo in presenza di due strade: sono due strade che hanno un loro percorso indipendente, autonomo, e proprio per questo sono reciprocamente intraducibili, ma anche si rivelano per questa via non conflittuali.

Questo lo diceva già, per esempio, nel 1878 Nietzsche, nella sua opera Umano, troppo umano, quando scriveva, in una sorta di anticipazione della teoria dei due livelli: Tra la religione e la scienza non esistono né parentele né amicizia, ma neppure inimicizia. Esse vivono in sfere diverse. E questo a mio avviso è un passo significativo. Lo scienziato, ad esempio, scopre che la teologia ha una sua epistemologia, una sua metodologia, un suo statuto, una sua coerenza interna, non è un sistema casuale, emotivo, irrazionale, ma caso mai meta-razionale, che percorre un altro viale di conoscenza.

Queste due strade per molti versi corrono sempre parallele e, come accade alle parallele, non si incontrano ma si devono riconoscere, rispettare e ascoltare, come affermava Max Planck nel suo saggio sulla Conoscenza del mondo fisico: Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente. Ecco allora un passo in avanti: cioè lo scienziato, proprio perché è uomo, proprio perché è complesso nel suo conoscere, ha bisogno, come accade nel caso dell’uomo innamorato, di usare talora anche l’altro canale di conoscenza, l’altro livello; non gli basta solo il suo, “per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente”.

Ed ecco allora la terza teoria: quella che è stata chiamata la teoria “del dialogo”, che supera quella dei due livelli. La teoria dei due livelli afferma che ci sono due lógoi, uno scientifico e l’altro teologico, qui invece si suppone un diá-logos, un incrocio, un ascolto che diventa anche collaborazione, senza che per questo i due statuti si confondano (come purtroppo succede qualche volta, per esempio in alcune teorie creazionistiche che confondono l’apporto scientifico con l’apporto teologico); quindi non confondendo ma dialogando.

Ebbene, questa teoria del dialogo è stata proposta da uno scienziato polacco, premiato nel 2009 col Premio Templeton per la scienza: si tratta di Michail Heller. Egli scriveva: "Esistono alcuni tipi di asserzioni che si lasciano trasferire dal campo delle scienze sperimentali (primo livello) a quello filosofico e viceversa senza confondere i livelli. E faceva un esempio: la categoria “tempo”, come è stata elaborata in maniera grandiosa dalla filosofia (pensiamo anche ad Agostino); ora, questa elaborazione filosofica è stata fondamentale per l’elaborazione della categoria “tempo” nell’ambito scientifico. Pensiamo alla teoria della relatività: anzi, in quel caso anche la categoria “spazio”, così come è stata elaborata dalla filosofia talora secondo percorsi inediti, diventa altresì fondamentale per poter riconsiderare il concetto di spazio e di tempo.

Talvolta, quindi, i due livelli, pur indipendenti, lanciano dei ponti di comunicazione tra loro. In questa linea vorrei dire qualcosa anche a proposito della teoria evolutiva, soprattutto attorno al tema della ominizzazione. Quando si può determinare il momento, anche se è un momento dinamico (non è un punto preciso), in cui c’è il passaggio dal primate all’ homo sapiens, o all’homo sapiens sapiens? Come lo si può determinare? Dal punto di vista meramente fisiologico, è possibile? No. Si è tentato, sì, in passato, su una base piuttosto estrinseca, quella fisiologica della aumentata capacità della scatola cranica. Ma anche questa era una determinazione molto fluida, oggetto di obiezioni. Ora, qual è l’atteggiamento di scienziati e di filosofi e di teologi a proposito dell’ominizzazione? E’ il ricorso alla verifica del momento in cui questo soggetto comincia a usare il simbolo, inizia cioè a creare una eccedenza di significati rispetto alla percezione immediata del reale. Quando si dà un valore simbolico alla realtà, si crea l’arte, si crea la religione. In quel momento, perciò, l’esperienza estetica, l’esperienza simbolica è generativa. E questa tappa si determina anche attraverso il contributo dell’antropologia culturale, della filosofia e così via, e dell’arte stessa.

La genialità di un altro pensatore, che era al tempo stesso teologo, filosofo, scienziato, in maniera suprema in tutti e tre i campi, perché era un genio assoluto, Pascal, ci offre un ulteriore spunto: nel pensiero 829 (edizione Chevalier), Pascal afferma che esistono tre ordini nell’uomo: l’ordine della carne (quello biologico), l’ordine degli spiriti (quello psicologico - e qui già cominciamo a fare un passo diverso, ci sono però elementi psicologici anche negli animali, anche nei primati - e infine c’è un ultimo ordine che rende radicalmente nuovo, inedito il soggetto e lo fa diventare pienamente umano. E lui lo chiama, cristianamente, l’ordine della carità. Un ordine che ha in sé una dimensione persino simbolica, estetica, e si manifesta quando una persona dà la vita per la persona che ama. In quel momento tutte le componenti precedenti non giustificano questo gesto. Si può arrivare sino al punto di amare il prossimo come se stesso, ed è già un passo evoluto ma non è escluso talora nell’animale. Quello della carità assoluta è, invece, il momento in cui appare l’ominizzazione suprema. Il contributo che viene dato dalla teologia, dalla filosofia alla scienza stessa è tale da permettere di definire che cosa sia l’uomo, paradossalmente usando un’altra prospettiva, un altro linguaggio, forse anche più completo e rigoroso.


Compito mio, anche nella funzione che ho nel Pontificio Consiglio della Cultura, e, direi, compito della teologia e della scienza, è quello di riuscire almeno a ricomporre gli ultimi due stadi; se lo stadio del rigetto è del passato - e ancora presente in alcune forme, ma più popolari che non altamente scientifiche - gli scienziati oggi sono molto più cauti nel rifiutare qualsiasi dimensione ulteriore rispetto alla loro. Ebbene, se è vero che abbiamo lasciato alle spalle la teoria del rigetto, ora la teoria dei due livelli, cioè del rispetto e dell’ascolto, ma io dico anche la teoria del dialogo devono diventare una prassi comune, senza che per questo si arrivi ad accordi artificiosi, senza che per questo l’imposizione dell’uno dei due campi sia tale da dover far mutare il risultato coerente ottenuto nel proprio livello.

Questa è la grande tentazione della scienza: di poter fare dichiarazioni che sono ulteriori rispetto al proprio perimetro. E la tentazione della teologia è quella di dover imporre alla scienza un suo protocollo di ricerca. Potranno però l’una e l’altra dire le loro ragioni motivate nell’ambito del loro orizzonte, tenendo sempre conto comunque che il dialogo diventa alla fine indispensabile perché identico è l’oggetto. Scienza e teologia studiano, infatti, lo stesso oggetto, l’uomo o il cosmo, e lo studiano da angolature differenti, come accade in due fotografie, una presa dal lato destro e l’altra dal lato sinistro, che non sono identiche, eppure il soggetto è lo stesso.

Ma non solo: lo scienziato e il teologo elaborano la loro riflessione specifica come creature umane, come persone, le quali sono però capaci di due tipi di linguaggio e di conoscenza: quella scientifica ma anche l’altro tipo di conoscenza, che è quella d’amore, estetica o teologica. L’uomo è unico ma con questa duplicità di fondo, l’uomo è naturalmente “bilingue” in questo senso. Ed è per questo che tutto ciò che si fa per salvaguardare i due livelli, ma anche per metterli in dialogo, è a mio avviso il grande risultato del lavoro che la scienza e la teologia devono fare, ciascuna nel proprio àmbito.

Concludo la mia riflessione evocando una testimonianza che metto a suggello di tutto il mio discorso. Abbiamo fatto una riflessione che potrebbe essere allargata in altre direzioni: pensiamo al rapporto tra fede e politica, tra fede, teologia ed economia, tra teologia e arte. Ad esempio si immagini il dialogo tra arte e fede come è stato per secoli e che ora si è spezzato. Hermann Hesse, in un saggio su Klein e Wagner, non esitava nel finale a dare questa definizione dell’arte: Arte significa: in ogni cosa mostrare Dio. L’arte sicuramente di sua natura tende a esprimere l’eterno e l’infinito. Proprio per questo l’arte è sorella della teologia, anche se su strade differenti.

Vorrei dunque concludere con una testimonianza non più del mondo cristiano, non più del mondo occidentale, ma del mondo dell’Oriente; anzi, dell’Oriente lontano. E’ un settenario che ci ha lasciato Gandhi: lo propongo in finale perché mi sembra, proprio per la sua vastità di orizzonti, una strada sulla quale il mondo universitario debba ininterrottamente lavorare. L’Università è certamente analitica, ma, lavorando sull’analisi si accorge che l’analisi non è la meta, non è l’approdo, è solo il fiume, il percorso; l’approdo è la sintesi. Anche la scienza cerca in ultima istanza la sintesi: la formula perfetta, bella, che riassuma tutte le leggi della fisica, ma che si ottiene attraverso un lunghissimo percorso analitico.

Ecco quindi il ricordo delle parole di Gandhi, valide in tutti i campi, in tutti gli orizzonti, non soltanto quello della scienza e della teologia:

L’uomo si distrugge con la politica senza princîpi,
l’uomo si distrugge con la ricchezza senza lavoro,
l’uomo si distrugge con l’intelligenza senza la sapienza,
l’uomo si distrugge con gli affari senza la morale,
l’uomo si distrugge con la scienza senza umanità,
l’uomo si distrugge con la religione senza la fede
l’uomo si distrugge con l’amore senza il sacrificio di sé.


Ecco, entrambe queste realtà devono incrociarsi tra di loro, e il nodo d’oro che le tiene insieme, la sintesi, il dialogo, è alla fine la nostra salvezza come creature umane.

1 commento:

Alce Grigia. ha detto...

Un vero compendio di scienza e filosofia, viste nell'ottica della fede cristiana: ragione e religione non sono antitetiche.
Spero venga letto e meditato.